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178 quattr’ore al lido

lente, ancora graziose e leggermente azzurrognole, indizio di una bufera lontana. E poi le onde maestose, quasi direi di stile classico, nelle quali il nuotatore si lascia calare all’avvallamento e portare al colmo con il viso e con i capelli asciutti, basta premere le mani e incurvare la persona in forma di sirena, mentre il flutto s’innalza; e dall’alto si vedono le creste regolari, allineate delle altre onde, che sembrano i solchi di un immenso campo; e nel basso si crede di essere caduti al fondo di un fosso, tanto i marosi, che chiudono la vista, somigliano a sponde erbose e ripide. In mare il tempo s’allunga. L’allegria o la tristezza, l’ardire o la paura fermano l’attimo; e si pensa in un minuto più e meglio di quel che in terra si penserebbe in un’ora. E un altro dì ci sono le onde pettegole, che scherzano intorno sgarbate, vi spruzzano, ciarlando, la loro saliva in volto, non vi lasciano respirare, vi tirano di qua, vi premono di là, vi gridano nelle orecchie con un fracasso assordante ed impertinente, come le donne delle Baruffe chioggiotte. Ma Dio vi salvi dalle onde matte, uscite dai manicomii del gorgo, coperte della loro densa bava bianca, nelle quali, a un tratto, vi sentite sommerso, arrovesciato, travolto, e quando finalmente mettete fuori la testa, un’altra onda vi si sbatte in faccia e vi spezza il respiro; poi, diventato sospettoso, guardate in giro con tanto d’occhi, e vi apprestate a ricevere degnamente sul petto