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186 quattr’ore al lido

di cattivo augurio. In faccia al mare l’animo si riempie di pregiudizii.

I camerieri accendevano le lampade. Il cielo si era lentamente annuvolato: non brillava neanche una fetta di luna, non luccicava neanche una stella. L’aria e il mare si confondevano nel buio. Solo a guardare giù dal parapetto del terrazzo si scopriva a intervalli un po’ del bianco della spuma sulle onde, le quali mandavano più forte, più frequente e quasi minaccioso il loro muggito.


Uscii dallo Stabilimento e, traversando a piedi il breve spazio che divide il mare dalla laguna, sospirai per la prima volta: avrei voluto sentire sul mio braccio il peso leggiero di un altro braccio, e udire accanto, dopo il fruscìo del mare, quello di un vestito di donna. Il vaporetto mandò il suo fischio, e si partì per Venezia. La notte era nera, la laguna era cupa. Non si vedeva altro che il fanale rosso di un piccolo vapore, che veniva, sbuffando, incontro a noi, e lontano i lumi della città, che parevano una costellazione piombata in terra e mezzo spenta. Si passò la punta del Giardino, poi si costeggiò la Riva degli Schiavoni. Il campanile di San Marco usciva dai palazzi che lo circondavano e, illuminato dai fanali della Piazza, si alzava gigante, sfumandosi nella oscurità verso la cima e cacciando la sua punta nelle tenebre delle nubi.