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216 il demonio muto

mezzo astemio, de’ larghi sorsi di acquavite. Vedi bestia che è l’uomo! Amando le montagne e le balze, cacciarsi con tanta fatica e con sì misero fine dentro ai pantani! Tornavo a casa, dopo qualche giorno, affranto, sfinito. La Menica mi dava brodi, petti di pollo, latte di gallina, vino vecchio e il suo sorriso tutta bontà; ma io non avevo fame e digerivo male. Pensa che malinconia m’era venuta addosso!

Non potevo uscire di camera: andavo dal letto al lettuccio. Se per caso giravo gli occhi allo specchio, vedendo un coso allampanato con le guance smunte, gli occhi spenti, il quale non somigliava affatto al mio signor io, non sapevo vincere l’ombra di un tristissimo sorriso, che mi correva sulle labbra e si trasmutava tosto in due lagrime lente. Da quindici giorni, all’aprirsi della primavera, mangiavo, non ostante, un pochino di più, dicevo qualche parola volentieri, cavavo qualche accordo flebile con meno stento dalla mia amata chitarra, la quale mi stava accanto sul sofà o sul letto. Quand’ecco a un tratto, una sera, mi sento esinanire. La Menica si spaventa. Era un gran pezzo ch’ella non dormiva sotto le coltri, non andava nel brolo a respirare una boccata d’aria, non faceva altro che starmi intorno sollecita, sempre attenta ad un’allegria fiduciosa e serena, che non le veniva dal cuore, ma che ella simulava virtuosamente per il suo povero infermo. Ell’aveva