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guance infiammate dalla vergogna e gli occhi pieni di lagrime d’ira, disperando oramai d’incontrare l’amante, fantasticando Dio sa che sventure, corsi a casa sua trafelata, quasi fuori di senno. La sua ordinanza, che stava lucidando la sciabola, mi disse come il tenente dal giorno innanzi non si fosse veduto.

— Tutta la notte fuori? — domandai, non avendo capito bene.

Il soldato, zufolando, fece di sì con la testa.

— In nome di Dio, correte, informatevi di lui: gli sarà seguita qualche disgrazia: ferito forse, ucciso! —

Il soldato alzò le spalle ghignando.

— Ma, rispondete, dov’è il povero padrone? — e avevo afferrato per le braccia il soldato mentre continuava a ridere, e lo scuotevo forte. Avvicinò il suo mustacchio al mio viso; mi gettai indietro, ma ripetevo: — Per carità, rispondete. —

Brontolò finalmente: — A cena con la Gigia, o la Cate, o la Nana, o con tutte e tre in compagnia. Altro che disgrazie! —

Compresi allora che il tenente Remigio era la mia vita. Il sangue mi si gelò, caddi quasi priva di sensi sul letto nella camera buia, e s’egli non fosse apparso in quell’istante all’uscio, il cuore in un parossismo di sospetti e di rabbia mi si sarebbe spezzato. Ero gelosa fino alla pazzia; avrei potuto diventare all’occasione gelosa fino al delitto.