dore abbagliante, non si vedeva una macchia nel cielo azzurro, le pareti della carrozza bruciavano, e in quell’afa grave, in quella densa polvere, io mi sentivo soffocare. La fronte mi gocciolava e battevo i piedi per l’impazienza. Non badai alla Chiusa: ascoltavo lo scoppiettìo della frusta di Giacomo. A Pescantina si tornò a rinfrescare: le buone bestie camminavano a stento, e a giungere a Verona ci volevano ancora dieci lunghe miglia. Il sole era scomparso in un nimbo di fuoco. Sempre carri e soldati, ronde di gendarmi, polvere, e a momenti un frastuono assordante e uno stridore acuto di ferramenta, a momenti un mormorio confuso e pauroso, nel quale si distinguevano gemiti e imprecazioni e le strofe di qualche canzonaccia oscena, cantata da voci strozzate. Fino ad ora eravamo scesi con la corrente degli uomini e dei veicoli, ora ci s’incontrava in qualche vettura d’ambulanza, in qualche compagnia pedestre di militari leggermente feriti, col braccio al collo, una fasciatura alla testa, verdi in volto, curvi, zoppicanti, laceri. E Remigio, Remigio! Gridavo a Giacomo di battere le bestie col manico della frusta. Cominciava a far notte. S’arrivò alle mura di Verona verso le nove; e tanto era il timor panico, tanto il trambusto, che nessuno badò alla carrozza, e si potè giungere all’albergo della Torre di Londra senz’altri intoppi. Non c’era più una camera, non c’era un buco dove poter dormire, nè in quel-