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130 terno secco

sguardo attorno. Era così poveramente arredata la casa, che ci voleva poco per tenerla pulita: la stanzetta da letto era presa dal grande letto di ferro, proprio di quelli napoletani, appena digrezzati; vi era un cassettone dal piano di legno, una toilette piccola piccola, meschina meschina, di noce dipinta, un attaccapanni e un paio di sedie. Il mobilio del salotto ora formato da un divano, così detto di Genova, di ferro e crine, di cui si poteva fare un letto, coperto male da una fodera di cretonne, stinta dalle soverchie lavature: da quattro sedie dure, rigide, di forma assai antiquata, da due scansie di libri e da una tavola rotonda, coperta di marmo, solida, lucida, il lusso della casa: vi si mangiava, vi si scriveva, vi si lavorava ed era pulita, bianca, fredda, era l’orgoglio della signora e della figliola. Niente altro. Non l’ombra di una poltroncina, di un tappeto, di una cortina: i mattoni, nudi; le finestre, nude; una nudità gelida.

Ma Caterina resisteva a Tommasina che voleva farla alzare: si voltava dall’altra parte, sorridendo, borbottando, lamentandosi che aveva sonno, che aveva dormito troppo poco ed esclamava ogni tanto, come per rifugio:

— O mamma, o mamma...

— Su, piccola, su, — rispondeva la mamma carezzevolmente, come se parlasse con una bimba di quattro anni.

Caterina asserì che era festa, era domenica: nos-