Pagina:Serao - Dal vero.djvu/273

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veolenti; i compagni volgari, chiassosi, sboccati; le donne dipinte, incipriate con la farina, cariche di oro falso, che parlavano il dialetto, gridavano, si urtavano, litigavano, alcune viziose, altre semplicemente miserabili; la sua livrea bianca, la maschera nera che lo deformava, il berrettone obbligatorio; quei caratteri di ghiottone, di pauroso, di egoista, d’imbroglione, che era costretto di rappresentare; quelle frasi a doppio senso, quei frizzi taglienti che addirittura portavano via il pezzo di carne, quell’amore esterno che doveva fingere — tutto, tutto gli sembrava ignobile. La sua vita della mattina lo ingentiliva e gli sviluppava tutte le facoltà morali; la vita di ogni sera lo avviliva, l’opprimeva, l’abbrutiva.

Con uno sforzo disperato aveva cercato liberarsene, aveva voluto gettare lungi da sè quel fardello tormentoso; ma gli mancava la capacità di un altro impiego, non sapeva nulla o un poco di tutto, che vale lo stesso: era un ignorante. Non lo avevano voluto neppure per copista; si chiedevano informazioni sul suo conto e quando si appurava che era il Pulcinella del S. Carlino, ognuno si stringeva nelle spalle con un sorriso: stava al teatro, vi rimanesse. Così soffrì due o tre rifiuti che gli facevano misurare quale e quanto fosse il ridicolo della sua posizione; e ritornava ogni sera alla sua catena addolorandosene, soffrendo, digrignando i denti quando il pubblico lo applaudiva; odiando sè stesso, il mondo — ed amando Sofia.

A lungo andare non ebbe più pace neppure nelle ore che trascorreva con lei, non giungeva più a di-