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vava di fronte: era giallo alla luce mite di un giorno di febbraio. Gli occhi pareva ogni tanto che loscheggiassero.

— Ieri — riprese lui — ieri non mi beneficaste di una lettera.

— Ieri... che feci ieri?... mi ricordo, non vi scrissi perchè venne Alberto Sanna.

— Viene... spesso... mi pare?

— È mio cugino — disse lei freddamente.

Di nuovo la conversazione cadde. Lui contava macchinalmente le dita del guanto che non aveva messo, parendogli qualche volta di trovarne sei. Lucia sfilacciava la frangia di seta della sua poltroncina, la faccia in aria.

— Volete che vi dia oggi la lezione di storia?

— No. La storia è inutile. Tutto è inutile.

— Siete anche voi triste?

— Non sono neppure triste, sono indifferente. Vorrei non pensare.

— Sicchè, scusatemi, nemmeno domani avrò una vostra lettera?

— Non so... credo che non potrò scrivervi.

— Eppure quelle lettere erano la mia consolazione — gemette il nano.

— Fugace consolazione.

— Sono così infelice, così infelice...

— Tutti siamo infelici — sentenziò lei, senza guardarlo.

— Temo che al collegio non mi amino più — egli riprese come se parlasse a se stesso. — Trovo sempre