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— Non ti pare di aver avuta la febbre?

— Mi pare di no: almeno quei brividi di freddo, quegli avvampamenti non li ho sentiti.

— Dammi il polso. È debole, ma tranquillo, sai.

— Ho fatto colazione leggiera.

— Pure dovresti nutrirti bene.

— Che! il mio stomaco non digerisce più.

— Come il mio, Alberto. Che belle violette!

— Te le ho portate: credo che ti piacciano.

— Spero che non le abbi avute da una fioraia.

— Allora non te le avrei portate.

— Grazie — e gli strinse di nuovo la mano.

Questo dialogo avveniva presso il balcone, mentre Galimberti stava solo e dimenticato nella poltrona. Egli, senza alzare gli occhi, seccato dai suoi guanti, teneva sulle gambe l’album delle fotografie. Ma restava troppo tempo senza voltare il foglio, contemplando le immagini che dovevano essergli indifferenti. Finalmente Lucia ritornò alla sua seggiola viennese e Alberto sedette sopra uno sgabello accanto a lei.

— Alberto, tu conosci il professore?...

— Ebbi l’onore...

— Ci siamo conosciuti... — dissero insieme, il professore a bassa voce, il cugino seccamente.

Si squadravano, l’uno infastidito dell’altro, indovinandosi innamorati della stessa donna: il Galimberti sentendo la necessità di andarsene, ma non sapendo levarsi su, non trovando il modo e le parole per accomiatarsi: il Sanna fermo di restare, profittando del suo stato di parente. Lucia pareva non accorgersi di