Pagina:Serao - Fantasia, Torino, Casanova, 1892.djvu/159

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parte seconda 151


«Così tutto, tutto fatalmente mi spinge verso Alberto. Sposandolo, io do una soddisfazione a mio padre, io do la serenità al mio sposo, io quieto la mia coscienza nell’adempimento di un sacro dovere. Nessuna idea d’interesse mi anima: già è inutile dirlo a te che mi conosci. Alberto è molto più ricco di me, ma che ne ho da fare io delle sue ricchezze? Noi non avremo corte bandita, noi non avremo in scuderia che due cavalli, per le passeggiate dell’ammalato, io vestirò semplicemente di nero — il lutto dell’esistenza sfiorita — avremo un numero di servi ristretto, pei nostri pochi bisogni. Nè sfarzi, nè lusso, nè feste, nè balli: lo stato d’Alberto non lo consente. Basterà che egli mi dia qualche cosa per i miei poveri. Terrò io l’amministrazione, perchè lui non potrebbe. Mi sobbarcherò anche a questo compito arido, duro, ingrato. Beverò fino all’ultima stilla il calice amaro che io stessa mi sono apparecchiato. Così il Signore tenga lontana dal mio capo quella suprema ora di debolezza in cui Cristo stesso, esausto, vide tutto scomparire e mormorò: Se è possibile, o Padre, questo calice mi sia risparmiato.

«Ma dimmi tu, Caterina, se tutto questo non ti pare bello? Dimmi tu, serena apprezzatrice, se quello che io m’impongo non è santo? Non è sublime la mia missione? Non è quasi divino quello che io fo? Non corono, così, degnamente la mia vita col motto che oramai sarà il mio: Tutto per gli altri, nulla per se? Non do io agli uomini un grande esempio d’altruismo? Non voglio lodi, voglio compirlo umilmente,