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la casa. Forse era a cagione degli ospiti, che avevano in casa da quindici giorni. Andrea era stato sempre delicato come una donna, nel fondo del suo carattere: Caterina lo sapeva. Dinanzi a quei due così malaticci, Alberto sempre pauroso a ogni tossicchiamento, Lucia sempre in preda a una nevrosi ora latente, ora sviluppata, Andrea si comprimeva nei suoi impeti di buona salute. Per delicatezza non osava tante famigliarità coniugali con Caterina: Alberto non baciava mai in pubblico Lucia: Andrea aveva finito per non baciare più davanti a loro, quando usciva, Caterina. Era per questo, forse, che da solo a solo era preso da quegli entusiasmi d’amore, per ripagarsi del tempo passato a discorrere come quattro amici.

Caterina si annoiava, come le altre otto o dieci signore del suo ceto. Ella capiva pochissimo in quella mostra di lavori donneschi, calze di filo grosso o giallastro, lavorate con ferri arrugginiti, sporche: camicie tenute fra le mani sei mesi, cucite a punti lunghi e inesperti, a pieghe mal connesse, di mussola rozza, stirate grossolanamente, dove le mosche accorrevano: interminabili lavori all’uncinetto, flosci, rilasciati, a maglie lunghe: rammendi fatti coi capelli, miracoli di pazienza che fanno schifo. Erano le scuole rurali che mandavano quella roba, accatastata, accumulata, mal catalogata; scuole rurali dove le maestre si sforzano invano a far tirar l’ago dalle rozze dita delle meschine contadinelle che zappano la terra; scuole rurali dove le alunne non hanno nè l’ago, ne il filo, nè il mussolo, ne i ferri, nè nulla per poter imparare. Caterina,