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226 | fantasia |
— È vero, è vero! Hai ragione, sono uno stupido; tu mi avevi detto di non andare. Non ti voglio mai dar retta, Lucia mia. Tu sei il mio buon angelo. Lo dirò a Cardarelli dell’imprudenza che ho fatta.
— Domandagli anche se dobbiamo restare ancora qui.
— Perchè? Io ci sto volentieri. E tu?
— Io sto bene dove stai tu.
A colazione Lucia venne cogli occhi rossi, non mangiò quasi nulla. Andrea taceva, Caterina taceva, essi scambiavano occhiate di compatimento; per quella povera donna. Lucia raccontò, tutta dolente, l’imprudenza commessa da Alberto a voler fare una passeggiata a cavallo, il freddo che aveva preso nella traspirazione, e la pena che le aveva fatto a sentirlo tossire così, duramente, quella mattina.
— Mi sono sentita squarciare il petto — conchiuse, e pianse di nuovo.
Nessuno mangiò più. Caterina le si mise accanto e cercò consolarla come meglio poteva, tenendole una mano fra le sue, memoria del collegio. Andrea le restava accosto, in piedi, non trovando nulla da dirle. Lei non si calmò che più tardi. Caterina doveva uscire per quell’eterno giurì; ma per fortuna ci erano solo due altri giorni di seduta. Non osò neppure dire a Lucia di uscire seco, tanto ella era abbattuta. Andrea doveva andare anche: lui a Caserta per affari. Marito e moglie la salutarono, Caterina la baciò sulle guance, Lucia singhiozzò e pianse di nuovo. Si trattennero ancora. Andrea s’impazientiva e Caterina temeva che Lucia se ne avvedesse. Si licenziarono.