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palazzo reale, facendo dieci chilometri su e giù, nei saloni, su quei mattoni lustrati a cera, che stancano le gambe più resistenti. Ora, usciva la mattina, molto presto, più del solito, nel carrozzino a un cavallo, per andare a Caserta a sorvegliare il ritiro della propria roba dalla mostra. Tornava per la colazione, si rivestiva: quella sua sciarpa di seta bianca che gli serviva di goletto e di cravatta, per casa, non la portava più: era sempre in goletto rovesciato e cravatta nera. — Per le signore — diceva egli, ridendo. Durante la colazione parlava vagamente dei suoi progetti pel pomeriggio.

— Esci ancora? — chiedeva Caterina.

— Non so... avrei da fare. Uscite voi, signore?

— Se vuole Lucia — diceva timidamente Caterina, ma col desiderio che si rivelava di non uscire.

— Io non ho voglia — diceva l’altra, sollevando stancamente le palpebre.

— Esci tu meco, Alberto?

— Non ho voglia — ripeteva l’altro — Io non so... forse non uscirò — mormorava Andrea.

Ma a colazione finita, quando tutta la gente era riunita nel salotto, lo prendevano le impazienze e si alzava per uscire. Talvolta riusciva a trascinar seco Alberto, nel phaéton: lo portava a Marciasse, ad Altifreda, sinanco a Santamaria. Andavano su e giù, per le strade maestre, nel tepore dolce dei pomeriggi autunnali. Alberto, piccolo, meschino, stretto nel suo paletôt, il fazzoletto di seta annodato alla gola, una coperta