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III.

Esse, le tricolori, le più grandi, le più belle, le più orgogliose, nelle ore destinate ai lavori donneschi avevano il privilegio di potersi riunire in gruppo in un cantuccio del lungo salone dei lavori donneschi. Le altre alunne stavano nei banchi, dietro ai telai, in fila, staccate l’una dall’altra, obbligate al silenzio.

Le tricolori, dalle cui mani uscivano i più leggiadri e i più costosi lavori per l’esposizione annuale, godevano di una certa tolleranza. Così, strette in circolo, voltando le spalle alle altre, chinando il capo, ciarlavano sottovoce. Ogni volta che la maestra dei lavori si avvicinava, cambiavano discorso, le domandavano un consiglio, mostrandole il lavoro. Era la loro ora migliore, quasi senza sorveglianza, liberate dall’occhio di pesce fritto di Cherubina Friscia, potendo discorrere di quel che volevano. Camminavano i lavori, ma volavano i pensieri e le parole.

Giovanna Casacalenda ricamava, nella batista finissima, una tovaglia di altare — un ricamo sottile, spumoso, una meraviglia — e aveva certe rotondità di braccio, certe volatine di dita per tirare il filo, tutte aggraziate e studiate. Ginevra Avigliana era assorbita in un merletto coi fuselli, a punto veneziano: doveva regalarlo alla direttrice alla fine del corso: ogni palmo