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rileggendo quel biglietto buono e crudele, inesplicabile, come colei che lo aveva scritto. Il temperamento saldo di Andrea, dalle sorgenti ricche di vitalità, si era guastato, il sistema nervoso si era corrotto, i muscoli si erano ammalati di fiacchezza. Egli ricercava invano la forza dei suoi pugni, la solidità dei garretti che non piegavano: era diventato debole, come se le gambe non lo potessero sostenere. Questo stomaco, dalle cui meravigliose facoltà digestive dipendeva tutta l’armonia di quell’organismo, aveva perduto l’appetito. Egli era giunto a prendere i gusti di Lucia, i bicchieri d’acqua gelata, quelli appena coloriti di vino, le vivande stuzzicanti, i dolci: le costolette sanguinanti lo nauseavano, come nauseavano lei. Si sentiva infermo. Non sentiva in sè, e attorno a sè che un solo rimedio al suo morbo: Lucia. Ella sola poteva guarirlo, ridare ai suoi polsi fiacchi il vigore, fargli correre furioso e ricco il sangue per le vene, restituirgli quella serenità fisica che viene dall’equilibrio, ridonargli quella gaiezza esuberante, quella contentezza della vita che aveva perdute. Egli era infermo per la mancanza di Lei, per una privazione ingiusta: sentiva che al primo bacio, alla prima giornata d’amore, sarebbe rinato, bello, forte, caldo, sfidante la mala fortuna e il dolore. E, a questa visione, egli chiudeva gli occhi, come abbarbagliato dal sole.

— Lucia, Lucia! — andava ripetendo, pallido, coi capelli disordinati, la camicia aperta al collo, poichè respirava male: egli non pensava ad altro che all’appuntamento del domani e a quello che gli avrebbe