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anche a me è morta la mamma e porto questa fascia nera al braccio, pel suo lutto. Volete essere amica mia?

D’un tratto — si ricordava Caterina — ella si era messa ad amare col suo piccolo cuore, ma con tutte le sue forze, questa creatura malinconica e snella come un giunco, che non giuocava mai e parlava come una donnina di quindici anni, quando ne aveva undici. Si ricordava tutto questo amore infantile, fatto forte dalla convivenza. Nelle ore di ricreazione avevano passeggiato pei corridoi, tenendosi per mano senza parlare, andando su e giù, come le altre andavano: nelle ore di scuola s’erano sedute nello stesso banco, daccanto, prestandosi la penna, il pezzetto di carta, il lapis: a tavola sedevano dirimpetto, si guardavano, e Caterina passava la sua parte di dolce a Lucia, che mangiava solo quello: in cappella, pregavano daccanto: nel dormitorio erano poco lontane. In verità, per ingegno, per bellezza, per statura, Lucia era superiore a Caterina, e Caterina aveva riconosciuto tacitamente tutto questo. Anche nel collegio lo riconoscevano. In collegio distinguevano le coppie di amiche così: una che amava e l’altra che si lasciava amare. Quella che si lasciava amare era la bellezza; quella che amava era la capezza, le redini dell’asino, qualche cosa di umile, di devoto, di paziente, di servile. La bellezza aveva tutti i diritti; la capezza nessun diritto e tutti i doveri. Le si permetteva di amare, ecco tutto. Nella coppia Altimare e Spaccapietra, Lucia era la bellezza e Caterina la capezza.

Infatti ella si ricordava di essere andata varie volte in castigo per lei, o per averla seguita, quasi trasci-