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nostri giuochi, dei nostri combattimenti con la scienza, dei nostri sogni. Dio ci pare che tutto un passato scompaia....»

Silenziosamente, Carolina Pentasuglia piangeva, col cuore serrato, sentendosi affogare.

«.... che venga travolto in un vortice, che la nostra gaia gioventù sia sparita, e che c’incomba grave il peso di una vita piena di doveri. Noi non osiamo guardare l’avvenire senza paura, noi vorremmo prolungare quest’ultimo giorno di collegio, noi vorremmo gridare alla direttrice, ai professori: Perchè ci scacciate? eravamo così felici! O teneteci, teneteci con voi!...»

La leggitrice non ne poteva più: la voce era diventata rauca, i singhiozzi le spezzavano la parola, le lagrime l’accecavano. Si asciugava col fazzoletto gli occhi e le guance, proseguendo con pena.

«.... ma questa è la dura legge che impera sugli umani. Un conoscersi, un amarsi, un dividersi: sempre il distacco dalle persone con cui si sarebbe vissuti felici. Ebbene, noi raccogliamo le nostre rimembranze, ripensiamo in questo giorno la vita vissuta, e tutt’i benefizi ricevuti dalla scienza vostra, dai vostri ammaestramenti, dal vostro costante indulgente amore, ci si ripresentano. Per quanto faceste siate benedetto e ringraziato. Sarete il più affettuoso ricordo che porteremo nella battaglia della vita, sarete una luce amica nel tenebrore fitto che forse ne aspetta. Se v’increscemmo mai, perdonateci. Ve lo chiediamo per quest’ora d’angoscia a cui giungiamo preparate, ma che