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spalle larghe facevano scricchiolare la giacca di panno azzurro-cupo: il largo petto faceva gonfiare la tela finissima della camicia. Era una figura poderosa, ma la cura minuziosa della persona si vedeva nel taglio elegante dei capelli, nel lucido delle unghie accurate, in una certa noncuranza signorile che non lo rendeva impacciato nella sua forza.

— Bè, Caterina, si pranza oggi?

— È in tavola.

La sala da pranzo era tutta gaia, pei candelabri accesi, per la tovaglia nitida, per la lucida argenteria. In mezzo vi era un trionfetto di frutta, uva, mele, pere, tutte bionde in quell’autunno crescente. Per le imposte chiuse, solo un piccolo mormorìo di pioggia si udiva. La luce batteva sui due grandi credenzoni di legno di quercia a vetrate, dove si vedevano ordinati i servizi di porcellana e di cristallo: batteva sui quadri di legno scolpito, dove le nature morte, uccelli, pesci, frutta, si ombreggiavano o si rilevavano. Le due poltrone erano una di fronte all’altra. Tutta la sala si riposava in un senso di ordine e di pace. Fumava il pasticcio di maccheroni, dalla crosta di pasta dolce, di color rame. Andrea mangiava forte e silenziosamente: aveva tre volte preso del pasticcio. Caterina, dopo aver mangiato con un bell’appetito di donna giovine e solida, lo guardava a mangiare, sorridendo un poco, col mento in aria.

— Perdio! com’è buono questo pasticcio. Dirai al cuoco, Caterina, che lo rifaccia spesso.

— Glielo scriverò sul libro della spesa. Ne vuoi ancora?