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sul cuscino di velluto rosso e macchinalmente pregava ancora. Si staccava di là con dispiacere, e andava a passare il fazzoletto di tela sul piccolo cassettone del collegio, il comoncino che aveva portato seco e per cui una parte della vita anteriore le ricompariva: i libri nascosti tra le pieghe delle camicie, le imaginette di Lourdes mescolate coi nastrini, i confetti che ella non mangiava. Sul piccolo cassettone era un cuscinetto da spilli, di seta rossa, coperto di trina finissima che Ginevra Avigliana, la più paziente merlettaia del collegio, le aveva donato — e una Imitazione di Tommaso da Kempis, fittamente annotata al margine con inchiostro rosso come il sangue: ella, passando il fazzoletto sulla copertina del libro, ne leggeva qualche parola.

Ma mutavano le fantasie quando si trovava innanzi al grande specchio del uso armadio, dove si poteva mirare tutta. Si guardava, vedendo quante pieghe facesse l’abito sul petto, pensando di essere diventata molto più magra in poco tempo. Stringeva fra le dita il tenue giro della cintura, pensando che, se avesse voluto, avrebbe potuto renderla sottile come un giunco. Posava di profilo, con lo strascico buttato di fianco, la testa un po’ inclinata sulla spalla destra. Era un ritratto fantastico che aveva visto una volta, in quella posizione, nella vetrina di un fotografo: una donna incognita, scarna, e vestita di bianco. Lucia immaginava che quella sconosciuta avesse molto sofferto e poi fosse morta, ignota, nella tenebra dell’ignoto.

Non mutavano le fantasie vicino allo specchio della