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270 L'ultima lettera


del giardino: e sono restata lì, nella notte, abbandonata a una stanchezza improvvisa, sentendomi crollata in fondo a un precipizio. Non so quando Francesco mi raggiunse; ma lo trovai accanto a me, improvvisamente, e un gran tremore mi colse, come nell’imminenza di un grande pericolo, di una grande gioia. Fumava una sigaretta: e i suoi occhi, fissi su me, avevano una tristezza, una dolcezza! Io lo guardava, tremante, aspettando che mi dicesse una parola. Tacque, per qualche tempo.

— Perchè ridete tanto? — mi chiese, con una profonda malinconia nella voce. — Non ridete più tanto.

— È il mio modo di piangere, — mormorai.

L’ho veduto impallidire, nella notte. Poi la sua mano ha preso la mia e l’ha tenuta un minuto brevissimo: tutta la mia vita è corsa in quella mano e mi sono sentita vacillare.

— Povera e cara donna, — egli soggiunse, pianissimo.

Egli lasciò la mia mano e se ne andò, lentamente. Così l’ho amato.