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20 | telegrafi dello stato |
visto che mancavano cinque minuti alle sette: ogni minuto squillava il campanello elettrico, qualcuno sopraggiungeva. Era Peppina Sanna, una magrolina, snella, tutta inglese, col vestito a quadrettini bianchi e neri, con gli stivaletti a punta quadrata e senza tacco, col grande velo azzurro che le avvolgeva il cappello e la testa, con un ombrello da pioggia, un sacchetto di pelle nera e un volume dell’edizione Tauchnitz sempre sotto il braccio. Era Maria Immacolata Concetta Santaniello, una fanciullona bianca, grassa e grossa che ondeggiava, camminando, come un’oca, di cui tutti si burlavano, che era piena di scrupoli religiosi, e prima di trasmettere un telegramma, invocava il nome di Gesù e Maria. Era Annina Caracciolo, brunissima coi capelli neri e ricciuti, la bocca rossa e schiusa come un garofano, gli occhioni languidi, l’andatura indolente di una creola: impiegata svogliata, che nessun rimprovero e nessuna emulazione poteva risvegliare. Si parlottava, in un gruppo di due o tre, sogguardando verso la direttrice che scriveva sempre, con la sua posa composta di alunna calligrafa; appena ella udiva una voce troppo forte, o una risata troppo alta, levava il capo e faceva:
— Pss! —
Poi, uno squillo del timbro e la voce liquida della direttrice:
— Signorine, in ufficio. —
In silenzio, esse sfilarono avanti alla sua scrivania e si diressero alle macchine. Nella piena luce del salone, rischiarato da tre finestre, si vedevano le facce