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364 La Conquista di Roma

duti nella grande voragine carnascialesca e da anni sembravano aver dimenticato quell’amabile ritrovo verde che la incipiente primavera già faceva germogliare tutto.

Intorno al minuscolo laghetto, niuno buttava la mica di pane al bel cigno candido che chinava il collo delicatamente, come una donnina malata, e navigava con lentezza in quel breve giro di acque verdigne: pareva vecchio e triste di vecchiaia il cigno, come se avesse perso l’abitudine di vedere le manini gentili delle creature dargli da mangiare. L’orologio ad acqua, sporco, appannato, segnava le 5.15; di quale giorno, di quale anno? Una sfera era rotta. Nessuno, nessuno seduto all’ombra della capanna svizzera che gli strani seminaristi tedeschi vestiti di rosso e gli allievi del collegio del Nazzareno amano: e dal cancello che separa villa Medici dal Pincio, si vedeva un lungo viale cupo, deserto, bruno e umido. Sotto i platani le erme marmoree, dalle guance un po’ consumate dalle piogge, con le anella delle chiome abbrunite dall’umidità, pareva si annoiassero lì, da secoli.

E Francesco Sangiorgio si consolava di questo profondo deserto campestre che si rigonfiava di