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la mano tagliata. 35

l’uomo era curvo, molto curvo; ma sembrava che fosse tale più per l’abitudine della servilità e della paura, che per la vecchiaia. Le sue mani erano scarne con certe grosse vene violette e i polsi nodosi: qualche cosa di avido vi era nelle dita adunche.

Il suo compagno era un giovanotto di una ventina d’anni, magro, ossuto, scialbo, di un pallore così malaticcio che faceva pensare a tutte le infermità che ammiseriscono e gelano il sangue. Era miseramente vestito, come il vecchio: un paio di pantaloni troppo leggieri per quella stagione invernale, una giacchetta troppo corta e un goletto di camicia tutto sfilacciato sotto cui si annodava un cencio di cravatta. Era brutto: aveva la bruttezza di chi vive di fame, di chi è sporco, di chi dorme negli stambugi infetti: e, vedete ironia del destino, quel giovanotto si chiamava Giacobbe, il nome del gran patriarca carico di ricchezze e di anni, glorioso nella Mesopotamia!

I due avevano finito la loro giornata. Alla meglio, Giacobbe, cercava di ripulire con una scopa la botteguccia, ottenendo di mettere dei mucchietti di polvere e d’immondizie verso il fondo, niente altro. Il vecchio scriveva lentamente in un suo grosso libro dai fogli ingialliti come il suo volto, con una penna d’oca che strideva, malgrado fosse spesso bagnata nella spugna di un calamaio di terra, da un soldo. Gli occhiali del vecchio erano rilegati in argento, unico lusso della sua persona: occhiali pesanti, che rendevano anche più degno dell’Antico Testamento quel robivecchi. Del resto, era ebreo e si chiamava Mosè Cabib: ebreo, il suo poverissimo commesso, Giacobbe Verona.

Il vecchio seguitava, con mano incerta, a scrivere in quel suo libraccio: e Giacobbe appoggiato alla scopa, aspettava con pazienza. Quello era certo, un libro di cassa: ma gli affari erano stati così