Pagina:Serao - Mors tua.djvu/112

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stata senza alcun profitto morale. Il Capo lo aveva incoraggiato a continuare, dicendogli di farsi più aderente alle anime dei soldati, di spogliarsi di ogni ornamento e di ogni artificio, di ridiventare un fanciullo, come fanciulli erano coloro che lo ascoltavano; e in atto di tacita obbedienza, l’apostolo della guerra, Fausto Ardore, aveva ripreso il suo vagabondaggio, di gruppo in gruppo, nelle primissime retrovie, avanzandosi sino alle zone di azione, per dire ai fanti, sovra tutto ai fanti, quanto fosse filiale la loro abnegazione, per la madre loro prima, l’Italia. Spesso, la voce del cannone, poco lontana, aveva sopraffatta la sua; spesso, un tragico passaggio di feriti e di morti, aveva interrotto la sua predicazione patriottica; e sempre più egli aveva sentito l’inanità del suo sforzo e la sterilità della sua opera.

Così, otto mesi sono trascorsi e in questa gelida sera invernale, Fausto Ardore aspetta, in una anticamera del Capo, nella villa che costui occupa e donde dirige tutte le vaste e possenti operazioni di guerra, di essere introdotto presso l’uomo che egli non solo ammira, ma venera. L’apostolo non fu mai scorato, come in questa ora dell’anno cadente, in cui egli non ha neppur domandato qualche giorno di licenza, per rivedere, in Roma, sua madre Marta e il suo diciottenne fratello Giorgio; sono otto mesi che non li vede. Non pensa a tutto questo, il tenente Ardore; ma è affranto dalla sconfitta spirituale, che è molto più forte, che è, forse, l’ultima e che egli deve confessare al suo Capo, chiedendogli di essere dispensato dal vano incarico. E il suo animo è pieno di tristezza e di miseria.

Il gran soldato italiano, l’uomo di pensiero e di fede, il Capo, accoglie con un gesto rapido ma cortese, il saluto militare del tenente Ardore. Col suo sguardo freddo e scrutatore, fissa il giovine ufficiale e pare che già abbia tutto letto in quell’anima, ferita nella sua più cara speranza.

— Non va, è vero, tenente Ardore? — dice la voce grave del Capo.