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la sua sete di sangue nemico, ha avuto una chiara e piena vittoria. Ancora una volta, egli mira quegli occhi che resteranno eternamente aperti e la cui tinta dolce, come è quella dei capelli, già s’intorbida; egli imprime nella sua memoria quei tratti, che già si mutano, si confondono. Scorge luccicare, sull’erba, nella mano destra, che vi giace abbandonata, qualche cosa di brillante; è un anello d’oro, una fascia piuttosto larga. Si china, solleva quel braccio pesantissimo, quella mano rigida, e, a stento, può togliere l’anello dal dito dell’austriaco, che egli ha ucciso. Così, adesso, Soria ha tutte le sue spoglie, segni tangibili della sua vittoria. E si volta, ancora, a guardarlo, come a salutarlo, tornando verso la sua trincea, verso il suo ricovero. Qui è il caporale Costantini, insieme al soldato Franceschi; il graduato pare preso da un pensiero, sollevando gli occhi sul tenente Soria. Poi, dice:
— Signor tenente, consente, lei, che noi diamo sepoltura a quel morto?
Guido Soria trasalisce alle parole pietose del caporale Costantini; e lo guata, torvo; ma reprime il suo impetuoso moto di collera.
— E dove mai vuoi sepellirlo?
— Sa bene... in quel cimiteretto, che è dietro la chiesetta di Valdivia... È poco lontano; andiamo Franceschi e io, dopo pranzo, quando vi è l’ora di libertà. In quel cimiteretto, ve ne sono altri, di soldati, sepolti...
— Ma sono italiani!
— Eh, oramai che egli è morto, la inimicizia è finita — osserva, con una certa malinconia, il caporale. — Dicono i sacerdoti, nelle loro prediche, che tutti i morti per la patria vanno in Paradiso... Anche costui, allora, vi andrà, perchè è morto per la sua patria austriaca.
— Va — tronca, bruscamente, il dialogo, il tenente Soria.
Il caporale Costantini è rispettoso, ma tenace. Ha da aggiungere qualche cosa: