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parole sarcastiche, nutriti malissimo e accatastati sulla paglia dei più sporchi cameroni, avevano avuto delle vecchie uniformi, stinte, spaiate, tutto ciò come se non fossero italiani e come se non fosse finita la guerra, tanto che la mala accoglienza italiana, aveva aggravato i loro malori fisici e morali. Meschine, malaticcie figure di soldati e di ufficiali, che penetravano in quella stanza, dopo ore e ore di crucciosa attesa, in quell’anticamera: figure di una profonda tristezza umana, nell’avvilimento e lo stento di un lungo periodo di prigionia e, dopo, sconvolte da quel così doloroso ritorno in patria, ricevuti come fedifraghi, come traditori: alcuni addirittura inebetiti dalle privazioni, dalle sofferenze, stringentisi nelle spalle, innanzi al disdegno di tutti coloro che li accoglievano. Ma il capitano Moles, per diverse che fossero la miseria fisica e il turbamento morale che avesse avanti, non cangiava la sua attitudine austera, in cui pareva pietrificato: e nelle sue corte e aride domande passava, penetrante e offensivo, il suo disdegno per il prigioniero italiano, che egli aveva davanti, in Trieste, finita la guerra, reduce dagli orrendi campi nemici della prigionia: disdegno invincibile in questo giudice, anche se il prigioniero che aveva davanti potesse ispirare, in chiunque, una immensa pietà.
Con una giubba scolorita che gli va troppo stretta e che gli lascia nudi i polsi, mostrando una camicia sfilacciata, con una faccia da idiota malato, e una voce indistinta, il soldato Pescatori Attilio sta innanzi al tavolo, dondolandosi, avanti e indietro, come se fosse per cadere.
— Quanto tempo, in prigionia? — interroga il capitano Moles.
— Non so. Molto tempo... non so — è la risposta vaga e lenta del soldato.
— Dove?
— In Ungheria... così mi han detto...
— Il nome del campo?
— Non lo so.