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LA FINE DEL VIAGGIO.

II.

Annotta. A una a una si accendono le alte lampade elettriche, inondando di bianca luce gli enormi palazzi nuovi del Lungo Tevere Castello, al limitare dei Prati: qualche suono leggiero di campane della sera, ancora arriva, dal Borgo Pio, si sfiocca sui folti alberi che celano il marciapiede, si dilegua sulle correnti acque del fiume, contenute dall’alto e potente muraglione. Da un’ora, trapassano, rombando, rapide, le automobili, che riconducono nei palazzi e nei villini, i ricchi abitatori che rientrano ai pranzi succolenti; trapassano, tutti riboccanti di luce e gremiti di gente minuta, i trams, andando, venendo, deponendo piccola gente che rientra, a casa, stanca; ondeggia, andando, venendo, un fiotto di pedoni, che sono estenuati dalla loro pesante giornata di lavoro e si disperdono, da tutte le parti, cercando il loro cibo e il loro riposo. Ma, di già, questo movimento dei veicoli e di persone, si fa più scarso, più rado: il Lungo Tevere diventa sempre più solingo, sotto la smagliante luce elettrica, che colpisce in pieno le pietre delle case, mentre gli alberi e il marciapiede rimangono nella loro fitta penombra. Laggiù, dal ponte, sbuca una donna, una popolana e se ne viene, con passo rapido ed eguale, verso il Lungo Tevere: non ha cappello,