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dore, e i suoi occhi furenti cercano, intorno, la nauseante vita, per sputarvi, sopra, t’anima sua.
— Madre — egli riprende, quasi senza fiato. — Tu hai vinto e io sono perduto.
— Fausto, io ho vinto e sono perduta.
E madre e figlio, Marta e Fausto Ardore si guardano, in volto, soli, ognuno con la sua disperazione, inetti a consolarsi, inetti a vivere.
La notte sgrana le sue ore sulla casa ove vivono, deserte per sempre dei loro figliuoli, Marta Ardore e Antonia Scalese. Sono ore d’immota e cruda insonnia, ove ritornano i più assillanti ricordi: ore di travaglioso dormiveglia, ove ancora il pensiero inquieto si avvolge e si svolge e si aggroviglia, novellamente, senza tregua: ore di pesante sonno, donde l’anima si scuote, si sveglia, balza fuori, a un oscuro richiamo. Posa suil’origliere la testa di Antonia Scalese e, senza più il sorriso, senza più il riso della follìa, tutta si scorge la devastazione mortale di quella fibra materna, e il suo rapido cammino alla morte: si aggrava il sonno, come una pietra, su lei, ma, a un tratto ella sussulta, si leva, nella oscurità, nella solitudine, urla:
— Gianni, tu sei morto? È vero, che sei morto? Gianni, Gianni, per pietà, dimmi, se sei morto?
Ed è buttata a terra, seminuda, scarmigliata, rotolandosi sul pavimento, contro i mattoni, battendovi la testa, origliando, ricadendo nella nera pazzia:
— Caro.... caro! Sei vivo, più che mai, e mi ami e mi baci, e verrai, anche, è vero verrai da mamma tua....
In terra ella resta, morendo di freddo, non sentendo il freddo, non volendo tornare a letto, dove, nel sonno, qualcuno le dice che il suo Gianni è morto: trema, ride, coi capelli sugli occhi e le carni che rabbrividiscono...