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La governante Genoveffa diede un colpo al cuscino del seggiolone, a cui don Francesco Soria appoggiava l’antica schiena, che era appena curva, malgrado la sua molto grave età, gli aggiustò sulle gambe scarne il caldo scialle di lana, che le cingeva e gli disse:

— Desiderate che io chiegga i giornali della sera?

— Non saranno venuti: arrivano sempre così tardi. Aspettiamo.... — borbottò l’ottantenne, scuotendo la testa, dai folti e lucenti capelli bianchi.

La robusta governante, Genoveffa, andò a sedersi, poco lontano, presso un largo tavolo bruno su cui erano sparse carte, giornali, libri, e su cui la grande lampada, velata da un ampio paralume giallo, metteva un rotondo alone di luce, lasciando il resto di quella stanza in una penombra. Ella, tranquilla, si mise a sferruzzare un suo lavoro di maglia. A un antico orologio di marmo nero, con ornamenti di bronzo dorato, sul caminetto, suonarono le nove. Don Francesco Soria si sbottonò la grossa giacca di lana a maglia, tirò fuori dal suo panciotto un orologio d’oro, attaccato a una massiccia catena d’oro, ne fece scattare il coperchio e verificò l’ora. Le sue mani erano scure, scarnite e mostravano delle grosse vene violacee; ma non tremavano ed erano lente ma precise, in tutti i loro movimenti. Anche il suo volto bruno ed adusto, era tagliato da solchi profondi, non rughe, ma solchi, che la vita vi aveva scolpito, indelebilmente: pure questo volto, raso bene, con uno sguardo vivo che ne partiva, di sotto le bianche sopracciglia e ove era raccolta ed espressa una forza di volontà, questo volto di ottantenne, non aveva l’età di don Francesco Soria: e formava, sempre, la meraviglia e la gioia del suo figliuolo lontano, don Giacomo Soria, quando egli rientrava dai suoi viaggi d’affari, in Roma, della sua mite

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