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le larghe maniche del suo vistoso kimono, Barberina aveva disciolto dalle pettinine e dalle forcinelle, i capelli bruni che le formavano un casco sulla piccola testa aggraziata: e con una molle spazzola, li lisciava, per intrecciarli, poi, nella treccia della sua acconciatura notturna. Il kimono, tutto ricamato a fiori dell’Estremo Oriente, si schiudeva, davanti e scovriva i piedini nelle pantofoline azzurre, fini ed eleganti, nelle calze di seta carnicina. Barberina si era tolto il filo di perle dal collo e lo aveva deposto sulla toilette, in una coppa di cristallo, si era tolti gli anelli e li aveva deposti, ugualmente: il suo collo era nudo e sulla mano sinistra, sull’anulare, non vi era che il piccolo cerchio di oro della fede matrimoniale. Si guardò, un’ultima volta, ella, nello specchio: si salutò con un sorriso e si volse verso suo marito, Camillo Moles, che era seduto, immoto e silente, in una poltrona, dall’altro lato del letto coniugale.
— Camillo, non si va a letto? Non sei stanco? Non hai sonno? — ella chiese, dall’altra sponda del letto, ove erano rimboccate le fini lenzuola e le coltri seriche, dischiuse al sonno.
— Non sono stanco. Non ho sonno, Barberina.
— Ma devi levarti presto, domattina. A che ora, è il tuo treno?
— Alle sette.
— Vedi bene, così presto, Camillo, è una levataccia!
Tutto questo era stato detto, da lei, con una naturalezza gentile: e le risposte di lui erano state incolori e monotone, senza che egli si volgesse a lei. Allora, Barberina attraversò la camera coniugale e si accostò al marito, sogguardandolo: e le sovracciglia nere e sottili si stringevano, forse, sovra un pensiero molesto.
— Io vengo, con te, alla stazione, Camillo — ella dichiarò.
— No, Barberina.
— Ma sicuro, che vengo!