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86 alla scuola


infelicità, qualche ingiustizia del destino, a cui la rassegnazione era completa. Non erano allegri i nostri diciotto anni, e le aride lezioni di aritmetica, di pedagogia, di geografia, finivano col ravvolgerci in un ambiente di malinconia.

Ma il tirocinio ci salvava dalla tetraggine, rompendo la monotonia, dandoci un giorno di pausa. Eravamo trenta e ne scendevano tre al giorno al pianterreno, nelle scuole elementari: così il turno capitava ogni dieci giorni. In questo benedetto decimo giorno, le tirocinanti indossavano l’abito nuovo se lo avevano, e se non lo avevano, mettevano un colletto pulito, un fiocco di nastro per cravatta: si pettinavano meglio, qualcuna si faceva i ricciolini. Entravano in classe alle otto, dicevano la preghiera, segnavano la presenza sul registro, e stavano lì, distratte, con gli occhi trasognati, aspettando le nove per andar giù, mentre le amiche mormoravano:

— Beate voi che andate al tirocinio!

Risalivano alle due, molto riscaldate in volto,