Pagina:Serra - Scritti, Le Monnier, 1938, I.djvu/174

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alfredo panzini 127

Dico che fin qui si è parlato dell’opera; dell’autore è ancora da dire. Poichè, se ci pensate bene, Alfredo Panzini, quel professore e quell’umorista e tutto insieme quell’uomo, del quale un ritratto bonario si trova abbozzato nel discorso di prima, solo per comodo della descrizione si rappresentava a noi come persona reale; ma realtà non possiede esso altro che fantastica. È anch’egli, come ogni altra persona e parte e qualità che si noti in codeste pagine, una creazione dello scrittore; e la sua consistenza è tutta di parole composte sui fogli con arte, che di quali effetti sia studiosa e per che modi, ancora è da vedere.

Dice la gente alla lesta che il Panzini scrive bene; e qualcuno lo pone già nel numero di quegli scrittori onesti e culti, la cui frequentazione si può consigliare agli scolari, per castigo della forma del dire. Non hanno torto; poichè la cultura si sente bene in lui, e l’abito dello scrivere derivato dalla buona tradizione italiana, e un odore di classicità.

Prendo un periodetto a caso. «Io sentivo in quel principio del viaggio il caro fiore della giovinezza olezzare ancora sul mio dispregio del mondo, come un cespo di viole a ciocche sparge la sua chioma odorosa sopra un cumulo di miserande ruine». Dovrò io sottolineare quel caro fiore, quella chioma, quelle ruine consolate d’un buon aggettivo? Chi lui scritto queste parole, chi ha tradotto così agevolmente il suo pensiero in immagini non meno accademiche che decenti, è, come dicono, uno scudiero dei classici.