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142 scritti di renato serra

possa rassegnarsi e riprende con più brevi accenti, a ogni ripresa vibrando più forte nelle sillabe più schiette, e misurando più sicuro il ritmo del canto oramai spiegato. Tutto questo non si può dire che sia fatto ad arte, ma neanche è inconscio: si sente nello scrittore un abbandono volontario e sicuro, che si gode della sorgente armonia, e la scandisce e la regola, nelle pause (così.... così....), e felicemente la slancia su per quelle aeree chiome, e la ribatte sullo stesso vocabolo ricantato con nuova intensità, e la varia con quegli intermezzi di suono basso così nettamente e chiaramente affidati pure a un vocabolo, «recise», che prima è quasi parentesi, e poi conchiusione brusca. Si sente, dico, a leggere, che quando egli ha detto «i meravigliosi tronchi», e nel cuore glie n’è rimasto come una eco, liberamente ha voluto esprimerla, e ha ripreso più forte, tronchi così belli; che quando ha sospirato, chiome!.., e dentro seguiva confuso armonioso susurro, egli non ha esitato a fare di quel susurro parole, e ogni parola ha adoperato con coscienza piena dei suoi effetti: il Panzini di un tempo non avrebbe giù, saputo variare la antitesi di chiome e recise in un duplice accordo, così efficace nella ripetizione e così mutabile nella musica.

Ma nelle ultime novelle (e più nell’ultimo volume, sul ’59, di cui non voglio parlare, per molte ragioni; chè come libro di storia è sbagliato, ma come opera d’ingegno e in ciò che ritrae del suo autore è cosa singolare, da non potersene sbrigare alla lesta) questo si sente assai più; il Panzini è tanto consapevole ormai dell’effetto delle sue parole, che quasi lo cerca a ogni ora: e scrive spezzato e brusco, con serie di frasi, talora di vocaboli, nettamente staccati, spaziati,