Pagina:Serra - Scritti, Le Monnier, 1938, I.djvu/338

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le lettere 291


E ora sarebber da ricordare, per la somiglianza dell’istrumento, altri poeti cosidetti dialettali; voci che ci parvero ieri profonde e gentili.

Anche questa, del dialetto, come espressione di una certa poesia più immediata, è stata un pochino una moda, e, come moda, è finita.

Parecchi hanno cessato o rallentato lo scrivere; e dei nuovi se ne conoscon pochi. Ce n’è a Napoli, dove Piedigrotta li alimenta e li rinnova ogni anno: alcuni giovani hanno squisitezze e acutezze notevoli; la canzone, dopo Di Giacomo, ha acquistato una dignità artistica e psicologica che non aveva in passato; ma in somma quelle che ci arrivano, d’anno in anno, e che ci piacciono spesso, sono canzoni: non poeti.

C’è, della generazione precedente, Russo, che è ricco d’ingegno e di spirito; la sua opera tuttavia non pare che sia uscita dal tipo del realismo di genere; ed è, in un certo senso, compiuta. Fra i più nuovi, c’era Murolo che aveva delicatezza; s’è messo a far del teatro.

Fuori di Napoli invece questa poesia dialettale si è fermata; o è rimasta confinata, come a Roma, nel cerchio dei giornali e delle curiosità locali.

Nome e nobiltà di poeta conserva veramente Pascarella; la cui fisonomia è scolpita in un medaglione di Carducci; noi lo guardiamo, nel suo bel rilievo, come cosa lontana. Di Pascarella si attendono i poemi del risorgimento, che dovrebbero essere una novità: ma sono forse, per quanto si sente dire, l’epilogo di un errore glorioso, che pur ha avuto qualche momento bello, nei sonetti di Villa Glori (che non valgono la Scoperta e gli altri primi).

A Roma c’è anche, giovine e vivace, Trilussa: non interessa più come qualche anno indietro,