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334 | scritti di renato serra |
che pagina di novella, o piuttosto ricordanza, in cui par di vedere il segno di una maniera nuova. Panzini non è stato mai così vivo come in questi anni; con quelle disuguaglianze che son proprie dei poeti. Perchè la sua natura è di poeta, pur senza il dono del verso; è il poeta della generazione che ha seguito il Carducci; parla per Severino, per il Signorini, e per tanti altri — lasciamo andare il Pascoli, che non appartiene a nessuna generazione. Scolari del Carducci, che lo seguivano nella modestia e nella semplicità del vivere e nell’amore grande e pudore della poesia; ma non avevano di lui la pazienza e la potenza letteraria, il gusto dell’erudizione e della storia, i pregiudizi; e neanche la selvatica felicità del temperamento.
Il Panzini scrive qualcuna delle novelle che si scordò di scrivere il Carducci; le scrive semplicemente, senza cura di modelli francesi, che non ha mai guardato, nè, forse, conosciuto; con un sentimento della vita e dello stile, che è carducciano nel suo principio, ciò è nella schiettezza di un classicismo che non è solo decenza della lingua e insaporimento letterario della fantasia, ma sopra tutto consolazione di umanità, commozione non retorica delle grandi cose belle e del contrasto senza rimedio con la realtà misera e cieca.
È lieve questo classicismo, come in genere l’apparato letterario del Panzini; che si direbbe scarso, povero in confronto della minuzia retorica dei vecchi o della cultura dei nuovi; non molto di greco e di latino, poco di moderno; letteratura d’Italia, senza squisitezze, e non con curiosità uguale, ma a tratti di simpatia e antipatia robusta: e tutto questo poi è scrollato e turbato dagli scatti di un carattere insofferente,