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l’attualità insomma comincia a ritirarsi da Dante; che vien restituito agli uomini del mestiere, agli studiosi; i quali anch’essi rientrano nell’ombra da cui erano usciti per un momento; e da cui potrebbe emergere solo qualche cosa di veramente importante. Ma, sia detto di passaggio, non par che ce ne sia; questa marea che si ritrae non lascia quasi altro che pula e seccume alla riva.
Una sorta di resoconto, pur giornaliero e senza prospettiva, come si trova, per esempio, bell’e pronto nei volumi del Bollettino della Società Dantesca — la cosa più seria e più utile che ci resti — permette fin d’ora un qualche giudizio sommario sopra una mole di lavoro enorme e inutile. (Utile soltanto come fine a sè stesso, come esercizio di erudizione, come opera di cultura, e anche come divertimento non meccanico, se volete).
Nessun valore nuovo e notevole, di uomini o di opere, ne è uscito: anche per quelli, che appaiono personalmente stimabili, il dantismo è stato più che altro un’occupazione.
Lasciamo da parte il lavoro tecnico, di illustrazione storica e accertamento critico del testo, la cui utilità dura e potrà dimostrarsi nel seguito; ma si vede fin d’ora nelle ultime edizioni dei commenti. Pur troppo si può credere che anche per questo rispetto, con tanti mezzi e tanta fatica, e con tutto l’aiuto della voga favorevole, si sia ottenuto meno di quanto era ragionevole sperare; fuor che nelle opere minori (e la Vita nuova pare ancora un po’ sub indice), i progressi verso l’edizione definitiva sono lenti.
Ma per quello poi che ci interessa, il dantismo ha giovato soltanto a portare in luce qualche figura meritevole, che poteva restare un po’ indietro; come quel Fedele Romani, che è morto da