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esame di coscienza di un letterato 413


Che cosa rimane di tutto il peso di prima? Un sorriso mi riporta, attraverso spazi e spazi, a una inquietudine che si perde lontana, sotto i miei piedi, come le casette della mia cittadina, raccolte laggiù in una immobilità di pietra tagliata a secco, senza toni e senza intervalli: muri pallidi e campanili invecchiati; e tutto così piccolo, così fermo.

È lontana; non è più mia. In me non c’è altro che il vuoto. E in fondo al vuoto, il senso di tensione che viene dai ginocchi irrigiditi e da qualche cosa che si è fermato nella gola: la stretta delle mandibole, quando la testa si rovescia indietro a lasciar passare quello che cresce lento dal cuore.

Non è niente di straordinario. La mia carne conosce questa stretta improvvisa dell’angoscia, che sorge dal fondo buio, fra una pausa e l’altra della vita monotona, e l’arresta: così; le gambe inchiodate alla terra, e tutto l’essere concentrato in uno spasimo di ansia, che tende a una a una le fibre.

Finchè la tensione diventa sospiro; lenta onda che cresce dal petto oppresso e gonfia la gola salendo su su per tutte le vene: irresistibile onda della vita, che non si può fermare. Se n’era andata, e ritorna. Tanto più calda e più piena, quanto da più lontano.

Solleva tutto, trasporta tutto con sè. Anche l’angustia, anche l’angoscia, anche il sospiro che sfugge dalle labbra stanche, e che io non penso di trattenere. Perchè mai lo farei?

Esso è mio. È il mio essere, che non posso cambiare: e non voglio. È la parte più oscura e più vera di me stesso. Quando tutto il resto se n’è andato, questo solo mi è rimasto. Scontentezza, angoscia, spasimo; è la mia vita di questo