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206 | parte prima - capitolo xxii |
solennemente accordate dalla costituzione che Sua Maestá ha la ferma volontá di proteggere in tutta la loro inviolabile integritá». Era sottoscritto dai nuovi ministri: il principe di Cariati, presidente, e ministro degli affari esteri, che aveva fama di galantuomo: il principe d’Ischitella della guerra, il generale Raffaele Carrascosa dei lavori pubblici, i quali tutti e due e il Nunziante avevano vinte le barricate; il príncipe di Torella, all’agricoltura e commercio, liberale moderato; il Bozzelli all’interno, irritato che gli avevano guasto lo statuto quasi gli avessero ucciso un figliuolo; Francesco Paolo Ruggiero, a le finanze, ministro in aprile, poi ritiratosi, fu veduto in abito di guardia nazionale presso le barricate, si presentò in abito nero a la reggia e fu ministro il 16 maggio. A questi, pochi giorni dopo furono aggiunti Nicola Gigli, per grazia e giustizia, buon professore privato di diritto, magistrato di nessun colore politico, uno di quelli che dicono: «servo chi mi paga»; e il duca di Serracapriola vicepresidente del consiglio di stato, di cui non si diceva male.
Mentre si scriveva questo proclama, anzi prima di scriverlo, il nuovo ministero nello stesso giorno 16 maggio richiamava la spedizione capitanata da Guglielmo Pepe, scioglieva la Camera, disarmava la guardia nazionale. Queste erano le condizioni che il re imponeva ai nuovi ministri, ed essi le accettavano. Disarmar quella guardia nazionale si doveva; sciogliere la Camera non ancora costituita legalmente, era forse una necessitá; ma richiamare le truppe dalla guerra fu un tradimento ribaldo, stolto, infame, vigliacco, e produsse disastri grandi all’Italia, ed altri dieci anni di servitú e di dolori. Il re volle quel richiamo: sí, ma voi altri príncipi, duchi ed avvocati ministri non dovevate volerlo voi, dovevate capire che quell’atto ruinava l’Italia, e non salvava Napoli. Re Ferdinando tradiva l’Italia credendo di salvare il suo regno: dodici anni dopo tutta Italia veniva sul regno e ne scacciava i Borboni. Tutte le colpe e le stoltezze umane hanno in se stesse la cagione del castigo, che tosto o tardi viene immancabile.