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ritorno a casa 19


a ragionare, e io volevo vedere come la testa mi si sarebbe quadrata, e come avrei fatto a ragionare. Fatto sta che come si dice chi nasce tondo non muore quadro, io non mi persuadeva di quelle cose che mi contava il maestro, il quale non mi pareva che fosse un gran loico, e teneva su pei tavolini molte figure di cannucce con le quali insegnava la geometria solida a la classe superiore. Nondimeno io andava a questa scuola di assai buona voglia, perché il prete aveva due nipoti belle e fresche come due rose, che mi quadravano meglio della geometria e con le quali avrei ragionato proprio a filo di logica. E mi piaceva la scuola anche perché ci venivano alcuni chierici che studiavano teologia e argomentavano con le formole scolastiche in latino: e io avevo un gusto matto a udirli ripetere: «Nego maiorem, distinguo minorem, nego maiorem sussumptam». E con un certo mio compagno che era loico e discolo come me, quando dopo la lezione scendendo le scale accadeva di vedere quelle faccette pulite e frescolelle, egli intonava: «Probo maiorem», e io rispondevo: «Sumo minorem». Di tutta quella filosofia e geometria che studiai allora non mi rimase altro nella memoria che quelle fanciulle e quelle formole scolastiche.

Sciupati due anni con questi preti dai quali non appresi nulla che mi sia rimasto, mio padre pensò di mandarmi in Napoli nel novembre del 1828, per studiar leggi, perché egli intendeva fare di me un avvocato. Eppure io avevo in bocca una linguaccia che non pronunziava l’erre, e non profferiva dieci parole senza tartagliare. Il napoletano è naturalmente facile parlatore e chiacchierone, ed io ebbi per molti anni la lingua legata, e per non fare ridere di me, io mi tacevo, specialmente innanzi a le donne, e pensavo, e osservavo ogni cosa. Ho corretto questo vizio con una volontá forte, con gli anni, e quando ho appreso a disprezzar gli uomini. Con tale una lingua far l’avvocato! Dovetti ubbidire, e a sedici anni fui balestrato nel mare magno della capitale.