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XXIX

(Nell’infermeria).

Santo Stefano, 8 aprile (1855) giorno di pasqua.

Sono circa un quindici giorni che il mio amico Silvio Spaventa ed io siamo in una grande stanza dell’ospedale, non per malattia di corpo, ma per fuggire l’ergastolo, avere un po’ di quiete e di solitudine, poter leggere e scrivere in silenzio, e tentare di risanare la mente ammalata. E giá mi pare di essere uscito dal tremendo ergastolo: mi vedo alquanto spazio intorno, mi vedo netto, passeggio sovra un pavimento di mattoni, non piú quelle belve nell’anfiteatro, non piú quelle voci; mi pare quasi di sognare. Oh durasse questo sogno! non tornassi piú lá!

Dal largo ed alto finestrone, che ha una buona invetriata, si vede lo spazzo che è innanzi l’ergastolo; la campagna dell’isola divisa in vari scompartimenti da muri a secco e da siepi di fichi d’india; una casipola che è sulla vetta piú alta di questo scoglio, dove sorgeva la casa di Giulia figliuola d’Augusto; una valletta nella quale pascolano una vacca, un’asina, alquante pecore e capre, guidate da un pecoraio forzato, e che si mantengono per il latte dell’ospedale: si vedono filari di viti, il grano che verdeggia sul terreno, e alquanti zappatori lontani che alle giubbe rosse si riconoscono per forzati: la sera vedo il cielo stellato, il giorno riposo l’occhio sul verde e sul mare e sulla strada che scende giú alla marina, per la quale sono salito, ora sono piú che quattro anni, e non so quando e come discenderò.

Su lo spazzo passeggiano soldati, impiegati ed altre persone libere: e vi sta sempre una nidiata di fanciulli che corrono, saltano, strillano, tendono trappole agli uccelli, scagliano sassi, si bisticciano, si voltolano per terra, fanno tutto ciò che