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XLVIII

(Il caso di coscienza).

Santo Stefano, 6 febbraio 1857.

Gigia mia adorata, sventurata e carissima Gigia mia, Qui non è ancora venuto il Salazar a dimandarci della nostra volontá, forse a causa dei cattivi tempi, io lo attendo con impazienza, e vorrei partire con la prima spedizione al piú presto possibile. So che a moltissimi condannati politici, ed a molte persone libere l’espediente di mandarci in America pare cosí brutto, che dicono essere un’infamia del governo. Io non voglio entrare se è un bene o un male che ci vuol fare il governo, ma dico, che è un bene per me, ed io l’accetto volentieri. Non accettare: ebbene, che fare? una dimanda? La faccia chi vuole, io non ne fo: ma chi lo fa, non ha diritto di biasimare il governo. Non fare dimanda, e restare nell’ergastolo? E perché? in che sperare? fare un altro sacrifizio per questo paese, le cui cime, i cui martiri, i cui eroi han fatto da cinquecento dimande, dicendo mea culpa, mea maxima culpa? Ed a che, o a chi gioverebbe questo sagrifizio di pochi, quanti siamo quelli che partiremo? Chi non accetta di andare in America, sappi che o tosto o tardi dimanderá, e forse dimanderá anche di andare in America. Io ora non prego, ma son pregato; non chiedo ma sono dimandato; e se esco dall’ergastolo, n’esco per una via onorata, con la fronte alta, rispettabile agli stessi miei nemici. «America, cinquemila miglia, trasportazione, navigazione a capo del mondo, sono venduti schiavi, è un’infamia»: cosí parlano quelli che giudicano per impressione non per riflessione, coloro che non sanno che al di lá dei monti e del mare che vedono ci ha uomini migliori di loro, e piú colti, e piú liberi: coloro i quali non sanno render giustizia anche ai loro nemici. Infine io non ho