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[489] ricordo di raffaele mio 203


«L’equipaggio è di soli diciassette».

«Ma ci sono quei due negri, che valgono per cinquanta».

«Io ho quattro pistole, e accheterò quattro negri».

«Raffaele mio, acchetati. Che rimorso sarebbe per noi di spargere sangue per non voler fare un viaggio un poco piú lungo? E se cade qualcuno de’ nostri? Oh, non pensare neppure a queste cose».

Con le buone parole mi feci consegnare le quattro pistole che consegnai a Francesco de Simone due, e due a Ferdinando Bianchi.

Intanto gli altri compagni che alla vista di Raffaele avevano levato gli animi e le speranze, sapendo il niego del capitano, sospettarono che questi la notte facesse chiudere sotto-coperta il giovane, e poi incatenar tutti, e Dio sa che altro: onde tutta la notte stettero quattro a guardia su la coperta, scambiandosi con altri quattro.

La mattina fu riferito al capitano che la notte s’era fatta questa guardia, e gli furono anche portate alcune capsule cadute al De Simone o al Ferdinando Bianchi mentre io lor porgeva le pistole. Il capitano al vedere queste capsule ci credette armati, fece gran sospetti per la guardia, ci sapeva usciti delle galere, e che eravam sessantasei, ebbe una paura maledetta. La paura vinse l’avarizia: chiamò la sua gente: dichiarò, che noi non volevamo andare in America, che egli dirigeva la prua per Cork in Irlanda.

Come l’equipaggio udí questo gridò «Urrah», e i due negri gridando «liberty» vollero abbracciare captain Raphael, e non si saziavano mai di riguardarlo, e sorridergli scrollando il capo.

Dal cambiamento di corsa fino a Cork durammo quattordici giorni. E da quella navigazione di quattordici giorni potemmo giudicare che sarebbe avvenuto di noi se fossimo andati a New-York in cinquanta o sessanta giorni sopra un legno a vela.

Il corridoio sotto coperta aveva sessanta letti intorno, e le tavole di pranzo in mezzo. Dalla stiva s’innalzava un puzzo