Pagina:Sino al confine.djvu/270

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nuvole chiare e immobili come blocchi di metallo, pareva assopito in un sogno fantastico.

Gavina ricordava le sere in cui scendeva con Michela alla fontana, i fuochi lontani delle brughiere, tutta la triste poesia del suo passato, che come quei fuochi melanconici mandava il suo riflesso in lontananza, fino al presente, fino all’avvenire. E benchè Francesco la tenesse per la vita come un fidanzato, parlandole di cose liete, ella si sentiva triste.

Al ritorno vide un’ombra attraversare il vano della finestruola illuminata di Michela, e udì un pianto infantile; si fermò, guardò a lungo in su ed ebbe il desiderio di entrare e veder la bambina. Ma Francesco la trascinò via.

La straducola si era animata. Di solito, durante la giornata, quel viottolo serpeggiante fra le casupole in rovina sembrava un avanzo di strada in un angolo di paese abbandonato: non vi si vedevano neppure galline, neppure cani; la gente era così povera che tranne qualche bue e qualche gatto non possedeva altri animali. Di sera soltanto apparivano qua e là figure scarne, s’udiva il roteare dei carri, il passo lento e grave dei buoi melanconici. Gavina aveva come l’impressione di passare per la prima volta in quel luogo di miseria. Nel chiaro-scuro della notte incerta la straducola pareva un torrente d’ombra, fra roccie desolate: donne e uomini, accovacciati per terra, nella penombra tratto