Pagina:Sonetti romaneschi I.djvu/240

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ccxxviii Prefazione


IV.

Insieme con Pasquino va scomparendo anche il tipo del popolano di Roma e del suo dialetto, che con Pasquino avevano così stretti legami.

“La plebe romana„ (io dicevo nella vecchia Prefazione) "è ignorante al pari d’ogni altra, ma presuntuosa in grado superlativo. Per il trasteverino, che ha piena la testa di confuse tradizioni sulla passata grandezza del suo paese; che vede le pompe asiatiche della Corte pontificia, e una moltitudine grande e sempre nuova di forestieri fermarsi attonita davanti a’ monumenti antichi e poi inginocchiarsi al cospetto del Papa; per lui che non sa nulla della magnificenza delle moderne metropoli, Roma è ancora il caput mundi, l’urbs, la città unica. E però, dotato com’è d’un ingegno naturale non ordinario, egli si stima un gran che per il solo motivo che è romano de Roma,1 e tiene per gente dappoco tutti quelli che non nacquero all’ombra della gran cupola. Chiama provinciali (cioè zotici) i nativi delle altre città d’Italia, siano pur Napoli, Firenze, Milano o Torino; e li tratta dall’alto al basso. Non fa nessuna stima del Papa, e ne dice ira di Dio in ogni occasione opportuna; ma guai se un forestiero ardisce sparlarne in sua presenza! Egli allora diventa un papista fanatico più di Ravaillac, ed è capace di metter mano al coltellaccio; perchè i panni sporchi vuol lavarseli da sé a casa propria, e perchè chi non è romano de Roma non può aver voce in capitolo. Bestemmia, e in modi novissimi, da mattina a sera; ma va alla messa puntualmente tutte le domeniche e le altre feste comandate. Ha i suoi bravi dubbi sull’esisten-

  1. Questa frase, da lui usata per distinguersi dai non romani dimoranti a Roma, potrebbe dirsi una traduzione libera dell’antico Civis romanus sum.