Pagina:Sonetti romaneschi I.djvu/243

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Prefazione ccxxxi

civile vita e la religiosa del nostro popolo di Roma, avrò, credo, offerto un quadro di genere, non disprezzabile da chi guarda senza la lente del pregiudizio.     Non casta, non religiosa talvolta, sebbene devota e superstiziosa, apparrà la materia e la forma; ma il popolo è questo; e questo io ricopio, non per dare un modello, ma sì una traduzione di cosa già esistente, e, più, lasciata senza miglioramento.     A te e a Biagini, e con voi agli amici di maggior mia confidenza, io darò a vedere gli ultimi lavori delle mie ore d’ozio, persuaso che la delicatezza e l’amicizia d’entrambi non ne trarrà fuori che la sola lettura.     Ne rideremo poi insieme; e queste risa ci varranno a prepararci l’animo alle possibili sciagure che ci minaccino.„1

Né mai, se si tien conto di quel che il Belli non poteva dire troppo apertamente, un artista concepì disegno più vasto, più novo, più civile, e ne ebbe più chiari nella mente i mezzi e il fine.

Mentre, dunque, gli altri scrittori di dialetto (compresi quelli che prima del Belli tentarono, imbastardendolo, il romanesco) si servono della lingua del popolo, per esprimere, quasi sempre, sentimenti e pensieri propri; il Belli invece se ne serve per esprimere sentimenti e pensieri del popolo stesso, mettendolo addirittura in iscena, e facendo parlar sempre lui, il quale, cosi, viene dipingendo sé medesimo, e tutta la vita romana, come e per quanto è penetrata nel suo angusto ma acuto e arguto cervello.     E il poeta sta sempre all’erta, per non uscir dai confini del pensiero e della lingua popolare. Dimanierachè, se in quel ch’egli dice, tutto non fu detto dal popolo, non c’è però nulla che il popolo non potesse----

  1. Cinque Lettere e due Note di Viaggio di G. G. Belli, a cura di Luigi Morandi (pubblicato por le nozze Osio-Scanzi); Perugia, 1886; pag. 9-13.