Pagina:Sonetti romaneschi I.djvu/266

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ccliv Prefazione

sto modo il Ferretti lo imparò forse dal Belli stesso, il quale era sempre nobile e contegnoso, ma nel recitare i propri sonetti si trasmutava in tante forme diverse, che il barone Achille Sansi, dotto e arguto ingegno spoletino, lo andava assomigliando al cappello d’un pagliaccio.

Dal recitar bene questo genere di componimenti allo scriverli ugualmente bene, non c’è che un passo: e se la ragione non ne fosse per se stessa evidente, lo proverebbe il fatto che nessuno li ha mai recitati con tanta maestria come il Belli medesimo, che perciò era desideratissimo perfino da monsignori e cardinali! Il Ferretti fece questo passo per caso, quasi senza avvedersene: ottimo segno, che indica una vocazione vera e matura. Riferisco, parola per parola, un brano d’una lettera che egli mi scrisse il 4 dicembre del 76: "Accadono giornalmente nel mondo alcune cose che, pur troppo, non si spiegano. Io non avevo, posso quasi dirlo, scritto mai due soli versi nel corso della mia vita. Ma sui primi di luglio, per una faccenda tutta scolastica,, (egli era soprintendente delle scuole municipali di Roma), "e che pareva non potesse dare appiglio a nulla, e nella quale fu causa diretta l’amico comune Santini, mi venne fantasia di rispondere a questo con un sonetto in vernacolo... Be da quer giorno in poi, sor Giggio mio, per dirtela propio talecquale, ho incominciato a scriver sonetti in vernacolo, e scrivendo senza interruzione in tutti i momenti che raccapezzo fra le varie occupazioni scolastiche, ho già fatto, in cinque mesi, un trecento sonetti. Ne vo leggendo di quando in quando al Santini e a qualche altro amico buon intendente; e tutti m’incoraggiano a seguitare. E io séguito. Già seguiterei, quand’anche non mi s’incoraggiasse a farlo; tanto mi ci sento spinto! Mi parrebbe davvero d’aver perduto la mia giornata, se non avessi trovato il modo di buttar giù un paio di sonetti. I primi furon tutti diretti al Santini; ma tentai ben pre-