Pagina:Sonetti romaneschi I.djvu/292

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cclxxx Prefazione


un verso con un garbo ammirabile, e che paion buttati là senza pensarci; fiori di lingua viva, bonnheurs d’expression, come li chiama Vittor Hugo, profusi; non un riempitivo inutile, non un luogo comune, non una slavatura rettorica; tutto sangue; e oltre a questo, una facilità di verso e una spontaneità di rima che non si può immaginare maggiore.„

Or bene, se in questa vivace descrizione al nome del Fucini sostituite quello del Belli, e cambiate tre o quattr’altre parole accidentali, avrete tutta a puntino l’arte del poeta romano, comprese, e come!, quelle voci imitative che al De Amicis paiono una novità. E quindi ogni sonetto del Fucini, nessuno eccettuato e compresi anche quelli italiani foggiati sullo stampo de’ dialettali, rammenta il Belli, e non può non rammentarlo, anche quando il soggetto sia affatto diverso, giacché l’arte è sempre la stessa.

A questa derivazione generica dell’un poeta dall’altro, si deve poi aggiungere che il Fucini è spesso, mentre il Ferretti e il Pascarella non lo sono mai o quasi mai, un vero e proprio imitatore; poiché il modello, spesse volte, lo ha tiranneggiato. Ed eccone qui alcune prove:

M’aricorderò sempre un marvivente,
Che l’aveva davero er cor in petto,
E cche la morte je pareva ggnente...
Belli, vol. III, pag. 93.
Quelli, davvero, avevan’un ber core,
E la mólte per loro ’un era niente.
Fucini (1870), pag. 48.


Checco, arrubba un mijjone, e ppe’ le cchiese
Sarai san Checco, e tt’arzeranno un gijjo.
Belli, II, 356.
Celca d’arrabatta’ quarche miglione,
E poi, se crepi: "È mòlta su’ Eccellenza!„
Fucini (1870), 59.