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Pagina:Sonetti romaneschi III.djvu/327

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Sonetti del 1834 327

ER CEDOLONE DER VICARIO

     Chi ttiè la robba de quer prete morto,
D’adess’impoi, cór cedolone àscido
C’ha attaccato pe’ Rroma er zor don Prascido,1
Sta ffresco come la scicoria d’orto.

     Ché scórto2 l’asso3 d’otto ggiorni, scórto,
Er Papa cór zu’ santo bbeneprascido4
Lo condanna addrittura a mmorì ffrascido,5
Senza che pprima se ne fussi accorto.

     La scummunica è uguale ar marfrancese,
Che tte penetra l’osse a la sordina,
E tte manna a fà fotte6 in men d’un mese.

     Chi ssarà ll’animaccia ggiacubbina,
Che nnun ridii7 le cose che ss’è pprese
Doppo der cedolon de stammatina?8

22 aprile 1834

  1. Cardinale don Placido Zurla, già confrate ed oggi Vicario di Gregorio XVI.
  2. Scórto, colla prima o chiusa: “finito.„
  3. L’asso: il lasso.
  4. “Beneplacido.„ Moltissimi dicono anche beneprascito e boniprascito.
  5. La massima parte del più basso volgo dice frascico.
  6. Ti spaccia.
  7. Non ridìa: non restituisca.
  8. Questo cedolone fu difatti affisso il 22 aprile 1834 per lo scopo indicato dai nostri versi. Simili cedoloni sono lunghi fogli stampati già anticipatamente come locazioni per l’occorrenza, venuta la quale si riempiono a penna certe lacune col nome del morto i di cui effetti o mancano affatto, o non sembrano all’erede della quantità ed importanza che supponeva. Il detentore, spirato un cento indugio, è condannato alla scomunica e a tutti gli effetti di quella, con espressioni e formule degne del secolo di Gregorio VII.