Vai al contenuto

Pagina:Sonetti romaneschi V.djvu/296

Da Wikisource.
286 Sonetti del 1845

LI FRATI.

     Questo io vorìa sapé da st’arrabbiati,
Ch’ar monno fraterie nun ce ne vònno:
Come farebbe sto povero monno,
Si vvenissi a rrestà senza li frati.

     Chi sse snèrba1 pe’ nnoi? chi pperde er zonno
Pe’ ottenécce er perdon de li peccati?
Chi lo porta er Bambino all’ammalati?2
Chi le smartissce le sarache3 e er tonno?

     So’ cquesti eh, ggiacubbinacci cani,
Li portroni e le mmaschere? So’ cquesti
L’impostori, l’arpie, li maggnapani?

     Tutte bbusciarderie,4 tutti protesti.5
Li frati so’ bbonissimi cristiani,
Tutti servi de Ddio lésciti e onesti.6

29 maggio 1845

  1. [Si dà le nerbate, la disciplina.]
  2. Il miracoloso bambino degli zoccolanti di Ara-coeli. [Che si porta in carrozza, come ultima medicina agli ammalati.]
  3. [Salacche.]
  4. [Bugiarderia.]
  5. Pretesti.
  6. [Lecito e onesto: locuzione comunissima, che s’applica tanto a cose, quanto a persone. Qui, applicata a tutti i frati senza eccezione, dovette far ridere assai chi senti il sonetto quando fu scritto; giacchè era freschissima la memoria dell’orribile fatto di Venafro. V. il sonetto: Er fattarello ecc., 31 magg. 87.]