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344 Sonetti del 1846


lungo tempo compressi, tutte le conseguenze delle agitazioni politiche, l’ira o degli esuli o dei prigioni o dei loro amici e parenti, davano a queste postume accuse un carattere più grave di quello che sogliono avere per consueto le patire in siffatte occasioni. Un sonetto terribile non tardò a circolare, nel quale tutti riconobbero l’ira di un partito perseguitato e la vendetta d’un’offesa. L’ultimo verso di questo compendiava quanto era sulle labbra e nel cuore della moltitudine, che curiosa si accalcava intorno alla sua bara per riconoscere i lineamenti dell’estinto:

 Giacque, e ai nemici non lasciò perdono.„

Cosi il Gualterio (Op. cit., voi. IV, pag. 337-38), e io aggiungerò qui il sonetto da lui ricordato, e insieme due altri sonetti romaneschi, che diventarono anch’essi e si mantengono ancora popolarissimi, ma che non sono del Belli:

GREGORIO XVI.

     Fu panattier,1 poi schiuma di convento;
Per supplizio de’ buoni ebbe il Triregno.
Pazzo, briaco, visitò il suo regno:
N’ebbe ingiusti trionfi e rese vento.2

     Profuse a pochi quel che tolse a cento;
A lo sgherro, a la spia d’onor diè segno;
Una canaglia che ti move a sdegno
Della porpora elesse all’ornamento.

     Di leggi invece ei fé’ parlar la scure;
Or fu nostro trastullo, or nostro smacco;
Aprì scuola di debiti e di usure.3

     Novo Sardanapal, beato in trono,
Più che di Cristo adorator di Bacco,
Giacque, e ai nemici non lasciò perdono.

Note
  1. Cfr. il sonetto: Sentite ecc., 6 dic. 34
  2. V. nota 1 del sonetto: Er viàggio ecc., 1 magg. 43.
  3. Cfr., tra gli altri, i sonetti: Er volo ecc., 13 genn. 45.

PE’ LA MORTE DE PAPA GRIGORIO.1

     Fr....a! in cche ttempi sémo, sor Cremente!
Se nega er zole! Basti a ddi cche cc’era,
Doppo morto Suàrfa2 l’antra sera,
Chi ddisse: “A Rroma nun j’importa ggnente!„

     E lo sciamanno3 ar braccio der tenente?
E in der Cracàsse4 la striscetta nera?
E Palaccorda ch’ha ffatto moschiera?5
E ar Pallone6 che ppiù nun ce va ggente?

  1. Per gustar questo sonetto, che non sarebbe indegno del Belli, giova rammentare che il Governo pontifìcio, a ogni morte di papa, imponeva un lutto ufficialo, non solamenle a’ suoi impiegati, ma anche a tutti i sudditi, sospendendo per molti giorni ogni pubblico divertimento (senza credersi obbligato per questo a compensar dei danni gl’impresari teatrali), e facendo sonare a morto tntte le campane dello Stato. Sicché, quando sul più bello del carnevale del 1829 morì Leone XII, i Romani, non potendo divertirsi altrimenti, sfogarono la stizza con questi epigrammi:

         Tre dispetti ci hai fatto, o Padre santo:
    Accettare il papato, viver tanto.
    Morir di carneval per esser pianto.

         Se morivi ne’ dì quaresimali,
    Leon, che in vita tanto mal ci festi,
    A retaggio comun lasciato avresti
    Il piacer di goder due carnevali.

  2. Il Papa. Cfr. la nota 10 del sonetto: Le commediole, 25 magg. 37.
  3. Il lutto. Ma, propriamente, lo sciamanno era il distintivo che dovevano portare gli Ebrei. Cfr. la nota 3 del sonetto: Una smilordaria. ecc., 17 genn. 35.
  4. Il giornale ufficiale (Diario di Roma); chiamato popolarmente Cràcas, Cracàsse e anche Càcas, dal nome del suo primo editore. Cfr. la nota 5 del sonetto: L’uffizzio ecc., 17 febb. 33.
  5. E il Teatro Pallacorda (oggi Metastasio) che ha taciuto? — Far mosca o moschiera: far silenzio, tacere. Ma moschiera per mosca si dice solo in senso traslato come qui, non sempre.
  6. Al gioco del pallone, che allora era all’Anfiteatro Corèa.